La vocazione all’accudimento è un fattore ereditario nella famiglia Munari, originaria di Badia Polesine (Rovigo). Quando la signora Piera - la vegliarda furba come un istrice, per capirci - era una neonata, fu trovata dal padre Enrico, che rincasava la sera tardi, attaccata al seno della madre Romilda, stroncata parecchie ore prima da un’embolia post partum: la mamma continuava ad allattarla anche da morta. La piccina venne allevata da una zia che aveva già quattro figli suoi, essendosi sposata a 15 anni con un medico di 33 che curava i malati di spagnola. «Mio padre Guglielmo la conobbe che era ancora bambina», racconta il geriatra. «Poi lei si trasferì a Tripoli, al seguito di uno zio promosso direttore della Zambeletti in Libia. Un giorno che doveva ritornare nella colonia italiana, dopo un soggiorno estivo al paesello, mio papà si offrì d’accompagnarla in auto fino a Rovigo, da dove avrebbe proseguito in treno per Napoli, il porto d’imbarco. Durante il viaggio, non se la sentì di lasciarla da sola per strada, per cui allungò fino a Bologna, poi fino a Firenze, poi fino a Roma. Giunto a Pompei, le porse una corbeille di rose rosse e le dichiarò il suo amore».
Il signor Guglielmo era un contadino divenuto possidente terriero. Vendette i suoi 45 campi per laureare tutti e quattro i figli. Il casato conta, oltre al dottor Claudio Alberto, parecchi altri medici, fra cui il professor Pietro Franco Munari, docente emerito di anatomia all’Università di Padova, e la professoressa Irene Munari, psicoanalista, che a Vienna fu allieva di Anna Freud, figlia di Sigmund.
Perché ha fatto il medico?
«Mio padre m’avrebbe voluto ragioniere. Ma io fin da bambino ho sempre intuito la sofferenza. Capii dallo sguardo che Carletto, il figlio del bovaro, era malato, si stava spegnendo come un lumino. Lo dissi in casa. Mi presero per pazzo. Invece era tubercolosi. Povero Carletto, finì agli Alberoni, a Venezia».
E perché proprio il geriatra?
«Ho visto l’amore con cui per 12 anni mia madre ha assistito mio padre, completamente infermo. Ho capito che la medicina è prima di tutto un mondo di relazioni affettive. Da giovane medico in ospedale vedevo pazienti con le piaghe da decubito, puzzolenti, e mi dicevo: ma guarda, trent’anni fa erano giovani, belli, pimpanti, com’è possibile? Siamo carne marcia. C’era un malato di tumore al quale dovevo togliere i vermi dalla bocca. Avrei voluto scappar via. Non potendo farlo, mi sono inventato l’escamotage del corpo risorto. Con la psicodanzaterapia».
Che cos’è una casa di riposo?
«Non so che cosa sia. Però so che cosa non dev’essere: l’anticamera della morte».
E invece?
«È l’assenza di calore e colore. È la dissociazione dell’io corporeo dall’io psichico. A chi ci entra viene imposto di spogliarsi della sua storia, di indossare i panni dell’anonimato e della mestizia per quieto vivere. Io vorrei meno infermieri e più animatori, meno silenzi e più comunicazione. Prima che lei arrivasse sono entrato in un bagno, scelto a caso, per annodarmi la cravatta. La tapparella era giù. Ho provato a tirarla su: m’è rimasta la corda in mano. Sa che cosa significa? Che da anni nessuno alzava quella persiana. Il sole e l’aria sono i primi esclusi dalla casa di riposo. E poi ci sorprendiamo che vi stagni l’odore di urina e minestrone? Colpa nostra, di noi medici, che rinunciamo alla gestione. Tutto è dato in appalto a imprese esterne. Si tirano a lucido i pavimenti ma nessuno pulisce i corrimani, che sono il più grande veicolo d’infezione. Il vecchio non beve? Mettiamogli la flebo. Nooo! Serve un angelo lì accanto che gli dia il tè a piccoli sorsi. Il vecchio non mangia? Gli è andato via l’appetito. Nooo! È che per tirar su il purè fatto tre ore prima ci vorrebbe la cazzuola invece della forchetta».
Fa star male anche me.
«Non si possono togliere le emozioni dalla vita di una persona. E invece pensiamo che l’accudimento dei vecchi consista solo nel nutrirli, imbottirli di medicine e farli andare di corpo. Che poi questi cretini di architetti progettano i ricoveri con i bagni ciechi. E ci lamentiamo che i vecchi siano tutti stitici?».
A tutto questo gli anziani come reagiscono?
«C’era un sacerdote ricoverato. Era stato colpito da un ictus, quindi stava in carrozzella, una carrozzella non si nega a nessuno nelle case di riposo. Le infermiere mi hanno detto: “Non capisce niente”. Ho cominciato a parlargli e a fargli vedere i giorni sul calendario. Alla fine leggevamo il salterio e recitavamo la compieta insieme. Capiva tutto. Solo che si fingeva invalido per non essere di peso né al personale né ai confratelli. E, badi bene, non è un caso isolato».
Che cos’è la psicodanzaterapia?
«Quando per la prima volta nelle case di riposo hanno messo la filodiffusione, ho notato un fatto curioso: se gli altoparlanti diffondevano musiche di Gustav Mahler, non succedeva niente. Ma non appena trasmettevano un motivetto di Raoul Casadei, tutti a battere il tempo col piede o col bastone. Ho capito che gli ricordava la giovinezza, quando rincorrevano le contadinotte nei campi».
E allora perché ha adottato il balletto anziché il liscio di Casadei?
«La danza accademica è matematica pura, è ordine inserito nella battuta musicale: anche un anziano non acculturato lo percepisce subito. Inoltre si identifica con l’800, col Romanticismo. Giselle, Coppelia, Il lago dei cigni, La bella addormentata, Lo schiaccianoci parlano un linguaggio universale. Come la fiaba, perché porta in sé i desideri e le paure dell’umanità. Lo dico sempre a Carla Fracci: il bacio che Giselle manda al principe Albrecht lo capiscono tutti, da New York a Tokyo. Così i miei vecchietti cominciano ad aprirsi, a interloquire. Fino al giorno prima si guardavano in cagnesco a tavola, vivevano come una violenza inaudita il fatto d’essere confinati in una camerata dove si parlano quattro diversi dialetti. Tutto svanito».
Com’è possibile che la psicodanzaterapia funzioni anche su chi è affetto dal morbo di Alzheimer?
«La risposta l’ha data il professor Vincenzo Marigliano, fondatore e presidente della Federazione italiana di medicina geriatrica: “Questa è la chiave d’oro per aprire un cancello d’oro che ci fa entrare in un castello d’oro”. Io mi accontento di dire che questa psicoterapia dolce riesce a fare un buco nella siepe accanto al cancello. Il farmaco non permette di comunicare con la mente. Le storie, il linguaggio del corpo, la danza, la musica, i costumi sì».
Tecnicamente, come fa?
«Mi aiutano Alessia Ballottin, direttrice della scuola Progetto danza di Legnago, che s’è formata al Martha Graham center of contemporary dance di New York e viene con le sue allieve nelle case di riposo, e i primi ballerini dell’Arena di Verona, Antonio Russo, Amaya Ugarteche e Giovanni Patti, sempre disponibilissimi, al pari del danzatore-coreografo Alessio Righetti, che ha ideato varie fiabe per gli anziani».
E che risultati ottiene?
«Un’anziana ospite del centro diurno di Cortina d’Ampezzo, che prima era sempre abulica, dopo aver visto Giselle ha voluto cambiarsi d’abito e mettersi il foulard per andare a cena in refettorio: si sentiva inadeguata con addosso i quattro stracci che indossava tutti i giorni. A Legnago, quando abbiamo messo in scena Il bosco centenario, ho visto anziani alzarsi di scatto dalla carrozzella e recitare in piedi filastrocche della loro infanzia. È uno sblocco di energia vitale».
Non è inutile? Dopo lo spettacolo i ballerini se ne vanno e gli anziani tornano al loro tran tran.
«Se fosse inutile, le pare che Annalisa Basso, responsabile dell’ufficio residenzialità dell’assessorato per le politiche sociali della Regione Veneto, avrebbe proposto di mettere a bilancio un euro pro capite al giorno per la psicodanzaterapia rivolta agli anziani?».
Perché usa il condizionale?
«Perché qualcuno le ha obiettato: “Ma come? Mangiano, bevono, stanno al caldo d’inverno e al fresco d’estate, che altro vogliono?”. E non se n’è fatto nulla. Ai burocrati delle Asl torna comodo così: guai se i vecchietti cominciano a svegliarsi, a parlare, a pretendere. Molto meglio che i ricoveri restino mortori. Meno spese, meno grane. Questo è il tempio del voto di scambio, quello vero: io, ente pubblico, ti tengo l’anziano e tu, parente, non devi rompere, sennò te lo rispedisco a casa. E chi lo vuole un vecchio col catetere che se la fa addosso?».
A chi è utile un anziano?
«A chi è utile una quercia? Il riparo e la stabilità non può darteli uno stelo primaverile. L’anziano è il prima e il dopo, è la proiezione della vita, è la nostra memoria storica. Ci dice tutto quello che l’informatica non può dirci».
Sovente è l’anziano stesso a rassegnarsi: «Che ci sto a fare qui? Basta, sono stufo».
«Per forza, non si sente utilizzato. Invece nelle case contadine di un tempo, nella famiglia allargata dove c’era sempre una figlia o una nuora a prendersi cura di lui, insegnava quando seminare, quando imbottigliare il vino, come riparare le colture dal freddo, come curare gli animali».
Indro Montanelli considerava un motivo già sufficiente per chiedere l’eutanasia il non riuscire più ad andare al gabinetto da solo.
«Rispetto, e condivido empaticamente. Ma ho visto molta gente morire e posso assicurarle che un minuto, un’ora o un giorno di vita non hanno prezzo. Quando sopraggiungono patologie che tolgono la dignità, io non riesco a dire: la vita è fin qua, adesso recido. Quelli che sarebbero disposti a tutto pur di non veder soffrire i propri cari, arrivati all’appuntamento estremo sono i primi a chiedermi: “Dottore, ma non riesce a fare qualcosa? non c’è un farmaco? non può mettergli una flebo?”. Dopo 39 anni, non ho ancora capito quando continuare e quando fermarmi».
Le piacerebbe campare all’infinito?
«Mi sento già eterno. Lei adesso penserà che la sto prendendo per il culo. È già immortalità vedere il sorriso di un anziano. La vita è questa».
(490. Continua)
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